Da Processo per stupro ai pregiudizi di oggi:
quando la vittima diventa imputato

Articolo di Gabriella Scaduto - Presidente Redipsi

Io non sono il difensore di Fiorella, sono l’accusatore, di un certo modo di fare processi per stupro”,  parlava così, nel 1978, Tina Lagostena Bassi nell’arringa di quello che diventò noto all’Italia intera come  Processo per stupro.  Fu con la prima ripresa televisiva di un processo, di questo processo, che venne alla luce l’enorme pregiudizio sociale che circondava, ancora in quegli anni, la visione italica della donna. Dalla magistratura all’uomo della strada dominava una visione sessista, manipolatoria e discriminatoria, capace, anche nei casi più gravi, di portare rapidamente l’opinione pubblica a vedere una in una povera donna, vittima di reato,  la causa o peggio l’autore del reato stesso. Una colpevolezza aprioristica verso il femminile e un “occhio salvifico” verso il maschile dominavano il pensiero comune.

Oggigiorno siamo convinti di aver superato certe dimensioni stereotipate e guardiamo spesso con sdegno e stupore a questo nostro recente passato. Ma è davvero così’? Nel 1978 le madri, gli avvocati, e molti altri puntarono il dito su Fiorella, sui suoi costumi dissoluti e su una presunta colpevolezza che sembrerebbe a chiunque, se vista oggi, antiquata e superata. Ma la verità è che, ancora oggi, le parole di Tina Logestena Bassi risuonerebbero intrise di una triste attualità.  A dimostrarlo è il dibattito recentemente sorto dopo alcune dichiarazioni pubbliche, di un noto padre in difesa del figlio, dove la donna, la vittima, è stata letteralmente scaraventata al pubblico ludibrio e costretta nel ruolo di inputata solo par il suo fatto di essere donna. Oltre al danno la beffa, direbbe il popolo arguto. Un esempio di quello stesso doloroso pregiudizio di un tempo che, oltre a far male di per sé, in aggiunta risveglia e si accresce nell’opinione pubblica.  La contemporaneità ha aggiunto la potenza e tutta la violenza che può scaturire dai social e, da qui, ha dato il via a un infinito processo di vittimizzazione secondaria.

I processi dovrebbero essere sedi di garanzia, di equità e protezione, dovrebbero essere  lo specchio della società stessa e delle sue regole di coesione e di equilibrio. Non possono e non dovrebbero  mai trovarsi alla mercè della rabbia sociale e del contagio della rete.  I social media non possono diventare aule e, con essi, i follower adire a giudici e accusatori. Questa dimensione non protetta e non regolamentata è assai pericolosa e fa tornare tutto il Paese indietro di anni, vanifica lotte e sacrifici per la conquista dei diritti fondamentali, dei diritti di tutti.

False istituzioni che accusano la vittima di mentire e le puntano il dito contro sono i più grandi nemici contemporanei della libertà, della democrazia e delle istituzioni che le presidiano. Queste sono le realtà che hanno portato l’informazione a perdere credibilità e solidità e che, in poco tempo e con molte ripetizioni, facilmente trasformano una bugia in “verità”.

Diciamolo, quanto affermato nel video di Beppe Grillo va contro molti principi alla base della tutela dei diritti dei più fragili e della non discriminazione. Viola il principio stesso di protezione della vittima, i toni e i modi sottolineano una esplicita e volontaria violenza psicologica verso l’altro(a) e contribuiscono a lanciare  un messaggio sociale che mortifica la donna in quanto tale.

Oltre a ciò, anche da un punto di vista psicologico, è un assurdo. Trovare il coraggio di denunciare, la forza per sostenere un processo, per chiedere giustizia, non è facile e richiede un giusto tempo psicologico di rielaborazione. Se non si considera ciò il messaggio che rischia di passare è che se la denuncia non è immediata la persona, la donna non è credile.  Non tenere conto dei meccanismi psicologici che stanno alla base di un vissuto traumatico è una negazione stessa dei diritti elementari della vittima, è un puro atto di violenza.

In un paese dove molti passi sono stati fatti nelle tutela dei diritti umani e dove le consocenze psicologiche sono sempre più al seervizio della comunità non possiamo tornare indietro.

Il passato è dietro l’angolo e, così come accade per i diritti, non diamone per scontate le conquiste.

Basti pensare che fu solo nel 1996 che lo stupro venne considerato un reato contro la persona e non più contro la morale, e che solo nel 1999 secondo una pronuncia della Cassazione, non si vi sarebbe stata violenza carnale su una donna per via del fatto che la stessa indossava i jeans al momento della violenza denunciata.

Allora qui, oggi, fra le righe dei quotidiani e nelle pieghe dei social network, torna quindi ad essere centrale un tema sociale e culturale antico come il mondo: il victim blaming, la colpevolizzazione della vittima.  La donna come responsabile della violenza subita.

Ma allora siamo davvero una società evoluta? O semplicemente ci piace pensarlo, dietro questa parvenza di modernità dove si parla costantemente di diritti? Nei social, nei programmi televisivi e sui giornali la libertà e i diritti divengono parole magiche che mascherano il fatto che troppo spesso tutto ciò che si vuole è concesso, anche quando questo viola i diritti di un’altra persona.

Da queste considerazioni mi sono spesso interrogata su cosa la gente e l’opinione comune pensi voglia dire “diritti umani” e cosa significhi essere donna oggi. Le risposte che mi sono data sono molte, ma alla base vi è una consapevolezza amara, quella di essere in un paese dove molte battaglie sono state fatte ma ancora molte sono da portare avanti, dove ancora purtroppo si colpevolizza la donna per essersela andata a cercare, di portare i jeans, di essere ubriaca, come se tale condizione desse il diritto a qualcuno di prendersi delle libertà mai concesse.

Mi chiedo quindi come possiamo davvero garantire i diritti umani e, in questi, i diritti delle donne? Cosa fare se nel profondo di molti è ancora così forte il pregiudizio discriminante? Come possiamo agire, da cittadini e da psicologi, se questi atteggiamenti non vengono corretti o condannati?

Ancora oggi ripenso a Tina Lagostena Bassi, alle sue parole e ancora oggi sono convinta che bisogna avere il coraggio di essere gli accusatori di un certo modo di fare i processi per stupro.

Gabriella Scaduto

Psicologa Psicoterapeuta

Presidente ReDiPsi Reti di Psicologi per i Diritti Umani