I diritti umani a Tokyo 2020
Un articolo di Armando Toscano - Tesoriere ReDiPsi
Alcuni potrebbero provare orrore nel pensare che questioni politiche e sociali facciano ingresso nello sport, e in particolare nella sua massima celebrazione, le Olimpiadi; alcuni potrebbero ritenere che utilizzare la scena olimpica per mandare segnali culturali e ideologici sia triviale, che lo sport non abbia nulla a che vedere con il mondo che gli sta attorno, che lo sport sia esaltazione pura del corpo e del suo dinamismo. Eppure…
Nel 1936 Jesse Owens, atleta statunitense di colore, vinse quattro medaglie d’oro, mettendo in ridicolo la retorica nazista circa la superiorità della razza ariana; durante le competizioni, strinse amicizia con il rivale tedesco Luz Long, e si tenne sempre in contatto con la sua famiglia anche dopo la sua morte in guerra. Quando si riprese con i Giochi Olimpici nel 1948, sospesi per la Seconda Guerra Mondiale, Germania e Giappone non furono invitate. E quando le Olimpiadi furono ospitate nel 2008 a Pechino, non mancarono le proteste da parte di attivisti per i diritti umani, che ritenevano che l’occasione avrebbe rinforzato sul piano internazionale un Paese che notoriamente non fa del rispetto della Dichiarazione Universale un proprio vessillo.
Quando Pierre de Coubertin annunciò a fine giugno 1894 la volontà di rifondare i Giochi Olimpici, si trattò dell’apice di un’attività di promozione dello sport come fonte di promozione e rilancio della Francia, sconfitta dalla Prussia; fu grande il suo lavoro di pedagogista in tal senso, e quando si guadagnò la fama di padre delle Olimpiadi, non tardò a dire che lo sport è una religio athletæ, con i suoi credo, i suoi dogmi e le sue chiese: e, va da sé, i suoi proclami e la sua politica. Il testo Storia Culturale dello Sport dello storico R. Mandell può suggerire alcuni spunti interessanti di riflessione in tal senso.
Ancora nel 1936, Ondina Valla vinse la medaglia d’oro negli 80 metri a ostacoli: a rendere la notizia straordinaria, è che si trattò del primo anno in cui furono considerate a pieno titolo atlete le donne, rompendo un muro creato dallo stesso de Coubertin, il quale riteneva che si dovesse adottare filologicamente il modello greco – escludente per le donne – di competizione sportiva. Fino ad allora, l’immaginario dello sport femminile era legato alla tennista in mise vittoriana Charlotte Cooper. E nel 1996, per la prima volta, parteciparono anche le donne musulmane.
Il corpo umano non è astorico, questo ci insegnano le Olimpiadi. Il corpo umano, con la sua stessa presenza, con la sua stessa sostanza, è sempre testimone del mondo che lo circonda: ne interpreta le ingiustizie, è plasmato delle sue incoerenze, nasce nelle sue antinomie, ed esprime una resistenza ostinata alle pressioni sociali, economiche, culturali. Ed è questo il senso dei tanti scatti, dei tanti messaggi che ci sono arrivati anche quest’anno dalle Olimpiadi di Tokyo 2020: messaggi che hanno portato al centro, in tutta la loro importanza, i diritti umani.
A cominciare da Fausto Desalu, velocista di origine nigeriana, che ha ottenuto la cittadinanza italiana a 18 anni benché nato e cresciuto in Italia; la madre, che ha raccolto pomodori per permettersi di sostenere la passione sportiva del figlio, non riesce a intervenire per un’intervista in RAI in quanto impegnata nel suo lavoro di badante.
E anche Marcell Jacobs, che benché dichiari di non apprezzare strumentalizzazioni politiche della sua vittoria, ha incarnato il senso dell’essere figlio di una coppia mista in Italia, e che nel rispondere in conferenza stampa “Viva il lupo” agli auguri ha comunque lanciato un messaggio importante a favore degli animali.
Daisy Osakue, lanciatrice del peso, nata da genitori nigeriani, italiana dal 2014; nel 2018 alcuni ragazzini le hanno lanciato addosso delle uova, ferendola in volto, mentre quest’anno ha regalato all’Italia un nuovo primato nella sua disciplina. E poi Paola Egonu, pallavolista anch’essa di origine nigeriana, ha ottenuto la cittadinanza italiana a 14 anni, tramite il padre, e nel 2018 ha fatto coming out; quello che il suo corpo testimonia non è solo la straordinaria capacità di saltare sul posto, ma anche le difficoltà dell’essere intersezionale, dell’appartenere a due minoranze discriminate.
Lucilla Boari, medaglia di bronzo nel tiro con l’arco, si commuove in diretta TV quando riceve le congratulazioni della sua compagna; i genitori dell’atleta, intervistati, dicono: «Si diventa campioni nella vita quando si impara ad accettare la vita, esplorarsi, proporsi ed accogliere». Alice Bellandi, judoka, ha dichiarato pubblicamente di amare “Chiara e il judo”. Storicamente, per il mondo LGBT+ queste Olimpiadi sono state le più inclusive, con più di 200 tra atleti e atlete ad aver fatto coming out.
Insomma, lo sport, la competizione leale tra esseri umani, ci mostra in tutto il suo splendore la storicità dei corpi, i messaggi di cui si fanno portavoce; ed è un fatto molto bello che sempre di più giovani sportivi decidano di usare la visibilità dei Giochi Olimpici per assumersi la responsabilità di un messaggio. Dopo la triste scena di una squadra italiana maschile indecisa sul dichiararsi apertamente ai Mondiali anti-razzista, le Olimpiadi hanno lasciato dietro di sé una narrazione speranzosa. Dalla quale estraiamo due icone: Simone Biles, che si ritira dalla competizione per occuparsi della propria salute mentale, che ci ricorda dell’errore di Cartesio, e Tom Daley, che in attesa del proprio turno lavora a maglia, mostrandoci un maschile che, per affermare la propria forza, non ha bisogno di ricorrere ai simboli dell’aggressività. Che anche l’affermazione dei diritti umani nel mondo, e in Italia, proceda sempre più veloce, arrivi sempre più in alto, sia sempre più forte.