Lessico familiare, ovvero sull'uso delle parole come pratiche di inclusione

Articolo del Tavolo di lavoro per i diritti delle persone LGBTQIA+

Oggi più che mai, poco dopo un intero mese dedicato al Pride, ci rendiamo conto di quanto sia importante il linguaggio. Se usassimo un’espressione limitante come “Gay pride”, faremmo un torto alle persone bisessuali, transgender, intersessuali, asessuali e queer che quotidianamente contribuiscono, ideologicamente ma anche pragmaticamente, alla costruzione di questo giugno dedicato ai diritti. Se confondessimo orientamento sessuale e identità di genere, disconosceremmo le radici profonde del modo in cui le persone si identificano e costruiscono il proprio sé.

Cominciamo quindi dalle parole. “Nell’esercizio della professione […] lo psicologo non opera discriminazioni in base a religione, etnia, nazionalità, estrazione sociale, stato socio-economico, sesso di appartenenza, orientamento sessuale, disabilità”. A partire da questa affermazione, contenuta nell’articolo 4 del Codice Deontologico degli psicologi, la comunità professionale è chiamata a confrontarsi sull’applicazione di questo principio in termini di tutela dei diritti. Le parole si fanno pratiche professionali. Una particolare riflessione può essere fatta in riferimento ai diritti LGBTQ+, rispetto ai quali ci piacerebbe intraprendere un confronto che abbia come focus una cultura del linguaggio. 

Nelle Linee guida per la consulenza psicologica e la psicoterapia con persone lesbiche, gay e bisessuali di Lingiardi e Nardelli (2014) emerge che, anche tra i professionisti della salute mentale, è possibile riscontrare la presenza di pregiudizi che si manifestano sia sul piano linguistico sia comunicativo e rendono più difficile l’espressione della diversità e la ricchezza che da essa deriva. Questo può comportare, anche a livello inconsapevole, un agire non propriamente conforme ai principi del codice deontologico e inficiare l’efficacia degli interventi. A tal proposito, gli autori suggeriscono che “per non veicolare messaggi di disconferma, è preferibile utilizzare un linguaggio neutro che favorisca l’espressione delle definizioni di sé e rispetti i tempi dell’utente.” Ma quanta strada c’è ancora da fare? 

Il primo giugno, oltre che a rappresentare il giorno di apertura del mese del Pride, è stata anche la Giornata mondiale dei genitori. In quella data il nostro gruppo ha avuto l’opportunità di dialogare con una coppia omogenitoriale, per dare voce alla loro testimonianza: la condivisione della loro esperienza diventa un racconto, un viaggio tra conoscenza e affermazione di sé, la narrazione di storie personali e di costruzioni familiari che ci ha permesso di sentire la fatica di convivere quotidianamente con un vuoto di diritti. Come ogni racconto che si rispetti, la scelta del linguaggio risulta un aspetto centrale. 

Sara e Chiara, le protagoniste dell’intervista, ci aiutano a capire quanto la terminologia sia fondamentale e sottolineano come una riflessione sul linguaggio non possa essere fine a se stessa, ma vada necessariamente ad inserirsi all’interno di un discorso più ampio che implica l’educazione civica, prima ancora di quella sessuale e affettiva. 

C: “Noi ci siamo conosciute nel 2012 […], e, come di buona norma nelle coppie tra donne, dopo pochissimi mesi abbiamo deciso di andare a vivere assieme [ride]. E non solo, ma me la sono trascinata a Londra”. 

Inizia così il loro racconto tramite la voce di Chiara, attraverso emozioni e risate, che ci porta a conoscere sia le difficoltà legate a un mancato riconoscimento, sia la gioia e la soddisfazione di riuscire a costruire una famiglia. Tanti sono stati gli imprevisti:

C: “Ci hanno detto: «Beh, dal momento che voi per l’Italia siete single, quello che vi consigliamo di fare è di rifare tutto da capo»” è quello che si sono sentite dire per poter convalidare la loro unione in Spagna, precedentemente contratta in Inghilterra.

C: “Presso il mio comune di residenza, il messo comunale che si è visto ricevere la documentazione e doveva poi emettere il documento d’identità, la carta d’identità del bambino, si è rifiutato di farlo” spiegano in riferimento alla possibilità di riconoscere entrambe come genitori in Italia. Il lessico giuridico delimita lo spazio di vita delle persone, l’universo delle loro possibilità. Prefigura i percorsi e le loro possibili anomalie, delle quali le persone divengono immediatamente consapevoli. 

C: “Poco dopo sono dovuta andare a fare un viaggio fuori dall’Europa e loro avrebbero dovuto seguirmi per poi fare una vacanza assieme. Ho dovuto andare al consolato e richiedere una lettera, praticamente un permesso da parte del consolato, perché nostro figlio potesse viaggiare senza di me, con sua madre. Quindi è tutto… non lo so… è assolutamente al di fuori di ogni immaginazione”. Cosa vuol dire essere madre? Quando si può applicare il termine “madre” a pratiche di accudimento, di reverie, di allevamento, di cura genitoriale? La domanda seguente sorge spontanea: 

I: “Rispetto alle difficoltà riscontrate in questo percorso, proprio a livello legislativo, quali sono le emozioni che avete provato?”

C: “Allora innanzitutto, parlo per me ma penso anche per Sara, impotenza. […] E quando pensi che tutto questo deriva da un’assenza fondamentalmente di leggi del tuo paese di origine, anche tanta rabbia. […] Appunto la rabbia di vedere che il paese da cui vieni è sempre lì ad arrancare invece che, come appunto tutt* desidereremmo, avanzare nella civiltà, no?”

Nasce così dalle loro parole una riflessione sul linguaggio e sull’educazione, che si collega alle nostre premesse e ci auguriamo possa accompagnarci verso più ampi orizzonti di pensiero.

“Il linguaggio è importante. Sì, estremamente importante! Ma deve essere parte di un discorso più completo, che tenga conto di educazione e di educazione alle tematiche, oltre che all’educazione linguistica. […] Ed è per questo che tutte le volte che vedo notizie su corsi a livello proprio scolastico, o comunque interventi di questo genere, non posso che essere felice, perché le due cose devono andare di pari passo.”

Linguaggio e senso delle cose: “Stat rosa pristina nomine” scrisse Umberto Eco, la rosa esiste prima del suo nome; le persone esistono anche quando non vengono riconosciute, ma la mancanza di un riconoscimento linguistico le pone in una condizione di impotenza, di dis-empowerment. Nella maternità LGBTQ+, così come in ogni altra condizione di totale o parziale invisibilità giuridica e sociale, si può fare appello solo alle proprie risorse di coping. Nonostante questi ostacoli, è possibile scorgere sui volti delle nostre ospiti sorrisi e soddisfazione, ma dobbiamo ricordarci che non tutti hanno difese sufficientemente forti. Chiediamo: 

I: “A tal proposito, avreste qualche consiglio da dare alle persone che come voi si trovano a dover affrontare queste difficoltà?”

C: “Adesso, da quando questo è successo a noi, qualche cosa è cambiata. Nel senso che, se pure poco qualche cosa c’è stato concesso. Perché anche la terminologia secondo me è abbastanza significativa. Perché è come se qualcosa dovesse cadere dall’alto invece di essere un vero e proprio diritto […] quello che posso consigliare è di non desistere e di andare dritti per la propria strada. Di non fermarsi davanti alle porte chiuse perché è la prima cosa che le persone di questo tipo si aspettano e l’ultima cosa che noi dobbiamo fare.”

Coordinatrice del tavolo: 

Sara Minotti

Autrici e autori: 

Giulia Stillitano

Andrea Ghibaudo

Claudia Gambero

Edoardo Lavelli

Alberico Lucchesi

Melissa Calzari



RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

  • CNOP (1998). Codice Deontologico degli Psicologi Italiani.
  • Lingiardi, V., & Nardelli, N. (2014). Linee guida per la consulenza psicologica e la psicoterapia con persone lesbiche, gay e bisessuali. Raffaello Cortina.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *